Diario da Gaza 18-24 novembre 2014

Pubblicato il 5 dicembre 2014 da Gazzella
 

 

DIARIO DA GAZA NOVEMBRE 2014

MARTEDI’ 18 NOVEMBRE – GERUSALEMME

EZY4871. Non è una password ma il numero del volo Easy jet che ci porta di nuovo a Tel Aviv. L’aereo è pieno di ebrei europei, in maggioranza romani. C’è come un’eccitazione nell’aria, quasi di festa e di attesa, qualche aggressività. Penso che l’aereo non è loro ma in qualche modo tutto il clima mi fa sentire ospite. E mi sento anche un po’ rabbiosa. Ci devo pensare perché. Forse perché loro vanno e vengono incuranti di quanto è successo quest’estate, anzi pensano sia un loro diritto di essere nel giusto: si sono difesi. Del resto la strage di quest’estate è stata chiamata “Defensive Edge”, e chi non ha il diritto di difendere la propria casa, la propria terra la propria incolumità? Già, chi non ce l’ha. Sospendo i pensieri per non continuare su queste riflessioni. Lo so, la risposta la troverò tra poco a Gaza.

All’aereoporto c’è Kim, palestinese cittadino israeliano, che ha quindi libero accesso all’aeroporto e ci aspetta. Già in macchina ci si immerge nella realtà: ci sono stati dei morti a Gerualemme in una sinagoga. Siamo preoccupate. Per sicurezza Kim non ci lascia sotto la porta di Jaffa, ma ci porta su fino alla torre di David a pochi passi dall’ostello. In effetti i negozi dei vicoli di Geruslemme vecchia sono in chiusura, pià presto del solito. Ci sono solo degli ebrei con cappello e ricciolini con il cappotto askhenazita che rapidamete passano e poche altre cose.

Parliamo con Carla del Community Menthal Health Programme, ceneremo insieme. L’ostello è sempre bellissimo e piace a Sancia. E’ una vecchia casa palestine in cima alla città vecchia restaurata lasciando intatti i muri di pietra ed arredata con sedili con cuscini palestinesi. Un clima pacifico e rimanda all’antico.

Due passi e siamo al ristorante in attesa di Carla. Il ristorante è praticamente vuoto. Non ci sono turisti e il proprietario ci dice che ci sono stati scontri a Gerusalemme e quindi stasera chiuderà prima. E’ un piacere vedere e parlare con Carla. Rapidamente ci aggiorniamo, parliamo del progetto che Sancia vorrebbe fare con il Community Menthal Health Programme di Gaza per i bambini affetti da stress post traumatico e lei apre uno spiraglio in cui potrebbe intervenire anche la cooperazione italiana, il direttore è un medico e c’è anche una psichiatra che potrebbero essere interessati. Stabiliamo che noi ci andiamo a parlare quanto prima e le diamo i risultati. Mercoledì pomeriggio dovremmo incontrarlo. Carla ci informa che hanno fatto una riunione con tutte le associazioni di donne di Gaza per vedere se riescono a creare una rete di coordinamento. Erano presenti più di 25 associazioni. Ah se il mondo fosse governato dalle donne!

Parliamo ancora del suo lavoro, dell’attentato di Gerusalemme, e dato che il ristorante ci mette praticamente alla porta decidiamo che non è il caso di girare per la città vecchia in direzione della spianata. Probabilmente l’attentato è una reazione sconsiderata alla decisione israeliana di vietare la spianata delle moschee ai musulmani…, il secondo luogo sacro per l’Islam, quindi l’ennesima grave provocazione che funziona da miccia agli attentati.

Discutiamo di prospettive, ed effettivamente qui gli orizzonti son chiusi. Già la sopravvivenza si presenta difficile. Allora per consolarci, ovvero farci del male, decidiamo di passeggiare nel grande,modernissimo centro commerciale che gli israeliani hanno costruito ai piedi della porta di Jaffa, di fatto è sottoterra… e non manca nessun negozio delle varie catene di moda occidentali (Fendi, Tezegnis, Sisley, Ferragamo ….)

Anche qui c’è poca gente e molti negozi chiusi, la serata è finita, ci resta il letto all’ostello e domani di primo mattino si parte. Sta a vedere che Gaza è diventata più sicura di Gerusalemme!

MERCOLEDI’ 19 NOVEMBRE – GAZA

Alle 8 per venti minuti aspettiamo l’autista. Il traffico. Tutto viene ritardato, solo alle 9.30 siamo al confine di Eretz, oramai si entra tranquilli, salvo la solita domanda: “Avete armi?”. Questa volta rispondo: “You have the weapons”. Le armi ce l’avete voi! Ma è un gioco e la ragazzetta di 21 anni ride.

Si entra tranquilli, chiedo di non aver il passaporto firmato e dopo aver superato la porta blindata affidiamo i bagagli ad una carrozzetta palestinese per non trascinarle per il chilometro e mezzo fino al confine dell’Autorità Palestinese e ci incamminiamo con gli zaini a piedi. Camminare di primo mattino fa bene. Sta a vedere che gli israeliani sono degli igienisti e pensano alla nostra salute?

L’AP ci riceve come qualsiasi impiegato di confine annoiato, guardano il passaporto. Faccio la stupidaggine di dire che non voglio il timbro sul passaporto e uno di loro mi risponde che lo faranno solo quando saranno uno Stato. Mi sento stupida, certo che non possono timbrare. La mancanza di uno stato palestinese comincia dalla possibilità di mettere (o no) un timbro sul passaporto! Cosa ridicola ma emblematica. E’ però lo spunto per cominciare a parlare di chi ha riconosciuto lo stato palestinese. Io ero rimasta alla Svezia, loro mi informano che in questi giorni lo ha fatto anche la Spagna e sperano nell’inghilterra (in proposito io sono scettica) e la Francia. Un altro chiede quando lo farà l’Italia. Lo deludo: gli dico che non tira l’aria.

Con altri 10 NIS (2 euro) di taxi siamo al confine controllato da Hamas. Il nuovo edificio di confine, in muratura, inaugurato da poco, che aveva anche il metal detector (quello che mi aveva fottuto l’altra volta la bottiglia di vino) è distrutto. Un caterpillar lo sta finendo di abbattere. Siamo tornati alle baracche e alla donna in divisa con velo che controlla a mano i bagagli. Cerca il vino.

E lì primo problema che allungherà la nostra giornata facendo saltare appuntamenti e la nostra austroungarica tabella di marcia. La richiesta di visto di Sancia ad Hamas (simmetrico a quello israeliano..) riporta il numero del suo vecchio passaporto. Le donne dell’associazione AISHA che ci hanno dato l’affidavit, hanno copiato automaticamente la vecchia richiesta di visto, senza controllare la fotocopia del passaporto nuovo; lo stesso, del resto, lo ha fatto l’ufficio visti di Hamas e quindi non si entra. Panico. Telefonata ad AISHA, negoziazione, attesa, telefonata all’ufficio visti di Hamas. Finalmente alle 11.30 entriamo (dopo un secondo controllo al bagaglio) con l’accordo di far rifare il visto. In macchina seguiamo la trafila, ufficio visti, attesa, visto in mano.

Alle 12.30 riusciamo ad arrivare alla sede dell’associazione AISHA. Ci siamo alzate alle 6.45 per arrivare alle 10. Welcome to Gaza. Ce l’hanno detto già varie volte. La città si presenta come sempre, polverosa, sgarrupata ma qua e là un edificio è distrutto, anche se le macerie grosse sono già rimosse, rimangono le strutture in cemento armato e i solai di moltissimi edifici ripiegati su se stessi. Non abbiamo tempo di fare foto. Domani è un altro giorno.

Cominciamo a lavorare con AISHA, ma prima di tutto parliamo dell’attacco di luglio ed agosto. Vogliamo sapere. Mariam, la coordinatrice dei progetti ci dice che gli attacchi sono cominciati dapprima subito dopo il confine est dove sono entrati anche i carri armati. Prima sono stati colpiti tutti i centri di Hamas, caserme, polizia, edifici pubblici ed anche ministeri. Poi l’attacco via mare e terra si è concentrato sulle moschee (si parla di 87 moschee, ma pensandoci mi sembra eccessivo). Le moschee distrutte sono impressionanti, era l’orgoglio di Gaza, soldi degli emirati e dei paesi arabi, il simbolo di una identità politica e religiosa. Alcune molto kitch e moderne. Distrutte. Poi i bombardmenti hanno attaccato alcune scuole (tra cui quella della Ong italiana Vento di terra) e poi le case in modo randomico, generando il panico nella gente che non si sentiva pià al sicuro da nessuna parte. Chiedo “ma per caso erano case di gente conosciuta come appartenente ad Hamas?”. Spero in una risposta razionale. Ma negano. Eppure accanto a case distrutte ci sono molte intatte, case nuove distrutte, case nuove in piedi.

In questi mesi, sicuramente hanno lavorato per ripulire le macerie ed accumularle da qualche parte, ma questi vuoti, questi edifici inclinati su se stessi parlano di terremoto, di tragedia, di morte. Sembra L’Aquila.

Alle 15.30 arriva finalmente il pranzo: pollo e riso pilaf e lo divoriamo voracemente, è buonissimo!

Altri due appuntamenti ci attendono: il Community Menthal Health e la YMCA di Gaza, un appuntamento non previsto ma richiesto dal presidente di AISHA. Sono tutti con le pezze al c… e hanno bisogno di soldi anche se ho l’impressione che molti siano arrivati, ma mai riusciranno a coprire i danni.

Il direttore del CMHP è una personcina squisita, elegante, attento. Come vorrei fossero gli psichiatri. Loro vivono l’emergenza. Non c’è solo il problema dei bambini e ce sono tanti (se 3000 bambini sono rimasti feriti, di cui 1000 in modo permanente, ci sono 3000 nuovi bambini traumatizzati, che magari hanno vissuto già tre guerre ed ogni volta hanno danni emotivi più gravi). Ci sono bambini che hanno perso i genitori, le madri, bambini che magari sono sopravvissuti tra le macerie. Non possono fare molto e sono l’unico centro di salute mentale di Gaza. E poi ci sono gli adulti. Ma serve elencare queste cose?

Dette poi da una persona tranquilla fa impressione. Ma ad esempio il progetto Ammaniti dell’università la Sapienza di Roma pecca nella sua scrittura di logica accademica/scientifica e poco si rende conto di quanto c’è da fare. Poi, piccolo particolare, nei costi mette solo i propri, ma si dimentica di mettere i costi dei palestinesi (tradutor@ esperti, medic@ a disposizione, logistica… ). Fa impressione. Yasser si esprime in modo raffinato ma è chiaro che è rimasto colpito dal progetto per l’autoreferenzialità di chi l’ha scritto. Ma Sancia dice che la scienza e la ricerca scientifica servono. Soprattutto a chi ha la pancia piena, dico io. Ma chi ce l’ha vuota? Come combinare le due cose? E’ ancora in corso una discussione tra Sancia e me su questo punto. Io sono rimasta scandalizzata dall’approccio di questi ricercatori della Sapienza che nella presentazione economica del progetto, si sono semplicemente dimenticati di considerare i costi dei palestinesi mettendo solo i loro! E mettendo nelle priorità i risultati scientifici e non la cura dei bambini, ma la loro analisi. Non mi ritengo una persona oscurantista, e ricercare mi piace, ma anche per chi fa ricerca servirebbe mettersi dalla parte di chi è osservato.

L’incontro è stato comunque utile. Abbiamo messo in contatto cooperazione italiana e questo centro di igiene mentale e ci sono delle prospettive di aiuti. Addirittura Carla ha ipotizzato che se si dovesse sviluppare un progetto scientifico, sarebbe importante collegare l’università di Gaza con la Sapienza, magari in un triangolo Sapienza-Università di Gaza-Centro di igiene mentale. Intanto Carla porta a Gaza il capo della cooperazione italiana, medico, e magari qualche goccia di soldi arrivano anche a Gaza.

Arriviamo alla YMCA, anche loro sono alla canna del gas. Durante i due mesi di bombardamenti hanno ospitato molte famiglie sia cristiane che musulmane e molte di queste continuano ancora ad incontrarsi qui e qualcuna anche ad abitare. Ci hanno offerto un dolce di semolino, miele e pinoli strepitoso che pare si mangi solo a Gaza. Con il direttore abbiamo parlato di progetti da poter finanziare con l’8×1000. Se in questa settimana riesce a formularne uno, lo porterò a Roma.

Infine il letto. In albergo. Per non sentire la nostalgia di casa, un pezzo di parmiggiano e quattro tarallucci. Manca solo il vino. Buonanotte!

GIOVEDI’ 20 NOVEMBRE

Ore 8, dopo una colazione con uovo, formaggio, cetrioli, pomodori, zatar, yougurt, marmellata, pane arabo e ovviamente nescafè (odio il caffè arabo con il cardamomo) via a piedi verso il centro AISHA (Sancia, 78 anni è una camminatrice indefessa, io le arranco dietro).

Comincia il lavoro sia per l’impostazione del progetto approvato (che è stato più che dimezzato) che per discutere quello che dobbiamo presentare il 30 novembre. Abbiamo una proposta di un fondo extra per il microcredito alle donne. Si tratta di 800 euro x 25 donne da restituire in 2 anni in modo da costituire un fondo per altri microcrediti ad altre donne, creando quindi una sorta di catena di sant’Antonio positiva. Le donne sono delle ottime imprenditrici e capaci di intraprendere piccole attività artigianali per sostenere se stesse e le loro famiglie. L’idea piace sia alla coordinatrice dei progetti che alla direttrice del centro. Ne parliamo a lungo, loro lo vedono come una nuova attività anche per l’associazione.

Alle 9.30 arriverà Mohamed che ci deve portare a vedere dei bambini disabili in adozione con Gazzella. Ancora 15 minuti per portare avanti il lavoro, domani è venerdì e comincia il weekend. Con AISHA potremo rivederci poi solo domenica per mettere a fuoco budget e dettagli.

E comincia il giro a Gaza. Cominciamo con una famiglia di Gaza, povera, a cui è recentemente morta una figlia adottata col progetto Gazzella. E poi via al nord verso Beit Hanun e Beit Lahiya. Qui c’è molta distruzione, ma Gaza è sempre la stessa, sabbiosa, polverosa, sgarrupata, senza fogne, con gente e case poverissime. Figli tanti. In media le famiglie che visitiamo (14) hanno dai 7 figli in su. Due famiglie ne hanno 12, una delle quali con tre disabili in casa. Uno ritardato mentale e due sordomuti. I genitori sono cugini. Se Gaza vivesse in una condizione normale questi matrimoni tra consanguinei sarebbero rari. Ma Gaza è una prigione a cielo aperto da cui non si può uscire. E così alla povertà si aggiunge anche la possibilità di figli disabili. Certo è che un bambino disabile è un aggravio familiare ulteriore in condizione di grande povertà.

Ieri abbiamo visto disabili mentali gravi ed anche disabili da stress post trauma che ha tolto la parola a bambini già in difficolta. Mentre cammino tra sabbia, buste di plastica e vari oggetti, mi dico che a Gaza non sono solo le case ad essere distrutte. Allora da dove cominciare? Sembra la fatica di Sisifo. Ogni due anni un bombardamento (a detta di tutti questo è stato il più tremendo e poi si deve ricominciare. E’ lecito chiedersi “per cosa?” Per essere bombardati nuovamente? Come si fa a vivere in questa precarietà totale? Abbiamo visitato case arredate con poltrone (per me diventate il simbolo di una condizione non pessima), case povere e poverissime, addirittura senza mobili solo con delle stuoie per terra. Abbiamo incontrato persone che hanno avuto in assegnazione una casa dopo che la loro era stata distrutta (padre disoccupato, 9 figli, 2 disabili). E ancora altre persone oscurate dalla fatica, persone gentili, dignitose. Una donna vedova con 7 figli ci ha offerto in regalo un orologio ottagonale dal diametro di almeno 45 cm adornato con ricamo palestinese e che, dato che aveva un gancio, abbiamo pensato fosse appeso in casa. Commosse abbiamo rifiutato pensando anche che forse era l’unica cosa di valore che aveva.

Insomma queste visite, faticose non solo umanamente ma anche fisicamente. Abbiamo girato ininterrottamente senza mangiare dalle 10 alle 16 del pomeriggio facendo scale, entrando in vicoli senza uscita, salutando gente, stringendo mani e cercando di ascoltare le storie di questi bambini, di parti non riusciti, di gente che non lavora, che non ha acqua in casa, e che non si capisce come sopravviva. Eppure a Gaza succede, ogni giorno.

Infine pranzo verso le 17 con il responsabile dell’associazione Hanan che si occupa dei bambini disabili.

La sera lavoro sul progetto e poi un libro per riposare la mente e farmi accogliere dal sonno.

Venerdì è festa, tempo di scrivere il diario.

Fuori dalla finestra, nel piccolo porto di pescatori (buio perché nel bombardamento ha perso le luci ad energia solare regalate dall’Italia) le poche luci delle barche dei pescatori si muovono e tremano.

Un ultimo sguardo e buonanotte.

LUNEDI’ 24 NOVEMBRE

Ultimo giorno a Gaza. Ci consideriamo oramai delle Gazawi.

Sveglia solita ora, solita colazione, solito tempo, solita vita. Sarà una giornata con un’alternanza di sole e diluvi.

Vicino al porto, la discesa sabbiosa è stata scavata dall’acqua per almeno mezzo metro creando un canyon impercorribile. Ma noi non andiamo al porto. Tutti i gazawi sono senza ombrello, camminano tranquilli sotto l’acqua, contenti che ci sia.

Oggi andiamo a sud, a Khan Yunis. Lungo viaggio lungo la costa, accanto ad un campo tutto sgarrupato, non si può parlare di case ma di catapecchie con i tetti di lamiera. Incontreremo le ultime famiglie. Tra queste varie bambine/i feriti nelle precedenti guerre. Khan Yunis, è una città (se la vogliamo chiamare così) totalmente caotica, carretti si alternano a bici, motocicli, macchine più o meno disastrate, la gente attraversa tranquillamente, scansando una macchina qua, un carretto là, in mezzo ad imprecazioni ed urli. Anche il nostro autista non è male, si crea un passaggio nel caos con abilità ed aggressività. Anche negli altri paesi arabi è così, in macchina diventano matti. Vige la regola del più forte o del più spericolato.

Prima di partire avevamo negoziato con Mohamed di ritornare entro le 14. AISHA mi ha promesso di accompagnarmi in una scuola UNRWA diventata rifugio della gente che non ha dove andare. Pare che siano più di 17mila famiglie. Comincia il giro, non incontreremo famiglie ricche, ma tutte povere o poverissime, moltissime case senza luce, solo con dei led che si ricaricano durante il periodo di elettricità. Rafah e Kan Yunis sono state particolarmente colpite dalle bombe e sia il sistema di distribuzione dell’elettricità che quello idrico sono gravemente danneggiati. Mentre a Gaza City e al centro-nord la turnazione dell’energia elettrica è tornata alle solite 8 ore sì, 8 ore no (il che vuol dire che un giorno si hanno 16 ore di elettricità e quello dopo solo 8), qui al sud in alcune zone ci sono solo 6 ore di elettricità nelle 24 ore. Da aprile si sono organizzati, hanno delle piccole luci quadrate a led (non so esattamente se si chiamano così), che si ricaricano con la luce e l’elettricità, una in ogni parete e tra loro collegate. Fanno una luce bianca però bassa. In tutte le case che abbiamo visitato, o non c’era luce per niente o c’erano luci di questo tipo. Uguali in tutte le case.

Dico a Sancia che gli israeliano vogliono far ritornare Gaza al medioevo. Vicino ad una casa c’era anche un cammello che pascolava. Anche nelle famiglie visitate oggi molti sono disoccupati (vorrei fare una statistica per capire quanti sono disoccupati e a quanto ammontano gli stipendi minimi che abbiamo sentito essere intorno ai 10-20 NIS). Rivisito una ragazza che avevo già visitato in aprile che è stata ferita alla colonna vertebrale durante una festa di matrimonio quando aveva 15 anni, ora ne ha 21. Vive con una nonna in una vera e propria catapecchia, con il tetto in lamiera. La madre è risposata e vive altrove, con un nuovo marito e 5 figli. Lei ci ha detto: quando muore mia nonna io mi ammazzo. E’ intelligente ma immobile su letto. Dipendente in tutto e per tutto.

Ogni storia si assomiglia eppure è individuale, anche le case sono simili, ma tutte diverse. Ognuno ha la sua storia e la sua famiglia, ognuno ha la sua schiera di bambini (mai meno di 6-7 con una media di 8-9 e picchi di 12-14). D’altra parte che si può fare a Gaza?

Per la prima visita si gira come trottole in mezzo alla campagna coltivata, più o meno disordinatamente. Anche qui ci sono state delle distruzioni di campi di ulivo. Qui si concentrano il massimo di distruzioni. E anche questa è una storia vecchia. Tra l’altro i tunnel di Rafah sono chiusi e quindi anche questo tipo di economia langue. Alcuni padri ci dicono che sono muratori, ma la ricostruzione non può partire perché manca il cemento. Chiedo se hanno le macchine che macinano il cemento, mi dicono che sì, ma serve anche cemento “fresco” e Israele non lo fa passare e il valico di Rafah è chiuso.

Il giro oggi finisce prima e compensa il lungo viaggio: 40’ per andare e un po’ di più per ritornare.

Ritorniamo in albergo per scaricare le foto e scrivere gli appunti delle visite.

Ceno con Giuditta, l’altra volontaria di Gazzella che si dedica ai bambini del Medical Relief. Lei si è trovata a Gaza durante il bombardamento di agosto, nel palazzo della cooperazione italiana, di fronte al porto, nello stesso appartamento con Michele Giorgio (giornalista del Manifesto e con una giornalista di RAINEWS 24). Mi racconta che una sera Michele ha raccolto dei volantini vicino a casa che avvertivano che se vedevano un razzo bianco, dovevano lasciare immediatamente la casa. La caserma a meno di 300 metri in linea d’aria è stata abbattuta. Quella notte hanno dormito con un occhio aperto, vestiti e con lo zaino accanto, nelle stanze interne. Il palazzo ha perso molti vetri. Quella dei vetri e una storia comune, al lato delle case distrutte tutte le case circostanti hanno perso i vetri, alcune sono state danneggiate. In questi mesi hanno lavorato molto i vetrai.

Dopo cena ci rivediamo con Sancia all’albergo e decidiamo di partire l’indomani sul presto. Doccia per non farla l’indomani e io mi addormento quasi su Le monde Diplomatique, leggendo un articolo sulla geopolitica dello spionaggio. Mentre mi si chiudono gli occhi penso al passaggio di domani. Mi alzo e butto tutto dentro il tablet/computer, ha una buona sicurezza. Cancello tutto dalla penna e controllo anche gli appunti. Alcuni li trascrivo in un file e mi rimetto a letto.

Gianna

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