Lo spazio e il tempo negati alla storia palestinese

Pubblicato il 1 febbraio 2006 da Gazzella
 

di Marco Linguardo

Tratto da: www.aljazira.it

 

Breve sintesi del libro “L’invenzione dell’antico Israele. La storia negata della Palestina”, di Keith W. Whitelam, in cui l’Autore – docente di Storia delle religioni –mette egregiamente in evidenza come l’antico Israele sia stato, dagli studiosi occidentali, ‘costruito’ a immagine di uno Stato-Nazione europeo, e come le tesi teologiche e politiche, volte a creare tale ‘costruzione’, abbiano concorso e all’espropriazione della terra e all’esclusione della storia della Palestina.

Forse nessuna storia appare più fondante per la “nostra” civiltà occidentale di quella dell’antico Israele e forse nessun’altra paga maggiormente lo scotto dei pesanti e pressanti interessi che su di essa fanno perno per sviluppare o contrastare specifiche politiche. Keith W. Whitelam, senza entrare nel merito della politica contemporanea, vi getta tuttavia una luce impietosa là dove mette a nudo le forze che, dietro l’impeccabile ricerca storica, hanno costruito e, per certi versi, “inventato” la storia dell’antico Israele, passando sotto silenzio e marginalizzando il più ampio contesto sociale, economico e politico della Palestina nella sua totalità. L’interesse degli eruditi occidentali, infatti, non si estende a tutti i popoli di quella terra e alla loro storia, ma si concentra esclusivamente su un antico Israele inteso quale radice della civiltà occidentale, stabilendo così una continuità fra il passato israelita e il presente dello Stato d’Israele.
Questo libro si propone a chiunque senta l’esigenza di un sano correttivo a dogmatismi culturali e politici e a calcificazioni del pensiero che inquinano il discorso quotidiano, alimentando intolleranza ed estremismo.

Le convenzionali “storie bibliche” di Israele cominciano invariabilmente con un capitolo dedicato alla geografia, vale a dire alla definizione dello spazio, apparentemente quale esposizione oggettiva delle informazioni geografiche destinate a fornire al lettore l’essenziale conoscenza dell’ambiente. Ma la correlazione fra la ricerca dell’”antico Israele” da parte degli studiosi biblici e l’ascesa dello Stato nazione e del nazionalismo europeo dovrebbero mettere sull’avviso riguardo alla problematica insita nella definizione spaziale del nostro oggetto di studio.
La scelta della terminologia per quell’area e il significato di cui, implicitamente o meno, essa é stata investita, negano ogni altra percezione del passato e del presente, fra loro intrecciati al punto che il secondo ha la priorità nel delineare e determinare il primo. Il problema per lo storico non è semplicemente quello di descrivere i limiti fisici dello spazio, bensì di attribuirgli un nome. E’ la scelta della nomenclatura, infatti, che comporta tante implicazioni, smentite e asserzioni fondamentali ma anche controverse.
Gli studi biblici impiegano uno sbalorditivo assortimento di termini per la regione: Terrasanta, Terra della Bibbia, Eretz Israel ovvero “Terra di Israele”, Israele, Giuda, Canaan, Cisgiordania, Siro-Palestina, Palestina e Levante. Al lettore occasionale di tante opere convenzionali di geografia storica o di storia della regione quei termini potrebbero apparire intercambiabili o neutri, ma la denominazione della terra ne implica il controllo. Le implicazioni politiche insite nella scelta della nomenclatura sono quanto mai palesi: il possedere e il dar nome alla terra, tanto per il passato quanto per il presente, sono di vitale importanza. L’essenza della rivendicazione della terra e quindi il diritto di darle un nome (che equivale a possederla) è contenuta nei concetti di nazione e di Stato. E’ a questo punto che la moderna lotta per la Palestina coincide con l’esposizione del passato operata dagli studi biblici. La scelta del linguaggio e il nominare la terra fanno parte della manipolazione di potere, che afferma o nega il rapporto con il territorio.
Le implicazioni politiche della terminologia per descrivere quell’area possono essere rintracciate in alcuni studi classici di geografia storica, che hanno influito sugli studi biblici durante l’ultimo secolo. George Adam Smith nel suo The Historical Geography of the Holy Land mostra chiaramente nella stessa introduzione come la Palestina non abbia un significa intrinseco, ma fornisce l’ambientazione e l’atmosfera per comprendere gli sviluppi religiosi alla base della civiltà occidentale. O ancora citando Martin Noth nella sua opera classica sulla storia di Israele (GeschichteIsraels) leggiamo:

[...] come reale e autentica storia, la storia di Israele fu sempre profondamente condizionata dalla natura del suolo su cui si estende. La conoscenza della geografia della Palestina è quindi uno dei presupposti per un’autentica conoscenza della storia d’Israele, la cui esposizione deve essere preceduta da una breve indagine sulle caratteristiche fondamentali del suo territorio. (Noth, op. cit.)

La Palestina non ha quindi alcun valore intrinseco, ma diventa l’arena della “reale e autentica storia” di Israele.
Vengono poi descritti gli aspetti fisici della regione: un territorio particolare, praticamente arido e privo di abitazioni. Ove presente, la popolazione è anonima, e rilevante solo per la sua mancanzadi unità. Una descrizione apparentemente oggettiva della topografia delinea un territorio disabitato, che attende di essere popolato da Israele. La Palestina è soltanto il palcoscenico per la storia d’Israele, la cui entrata in scena, ad adempimento della promessa, rende quella terra abitata e importante. Miller e Hayes inquadrano invece cronologicamente e geograficamente la storia diIsraele e Giuda, descrivendo le colline palestinesi come “il centro della scena”. Essi ammettono che in Palestina “vivevano diverse genti”, “abitanti dell’antica Palestina”, ma non si spingono aindividuarli quali Palestinesi.
Gli esempi citati non sono che una piccola parte ma illustrano l’argomento in maniera più che adeguata. Chiamare “Palestina” la regione e non chiamare “Palestinesi” i suoi abitanti costituisce una negazione deliberata e una rimozione della sua storia.
Ma se vi é una terra chiamata Palestina, perchè mai non esistono abitanti chiamati Palestinesi?
Per le cosiddette epoche preistoriche gli abitanti sono anonimi, eccetto per la designazione di periodi archeologici: Neolitico, Calcolitico, o cultura di Ghausslian. Non si hanno fonti scritte per identificare gli abitanti, ma essi non sono “Palestinesi”, o magari “Palestinesi neolitici”, “Palestinesi calcolitici” o “Palestinesi dei periodi neolitico o calcolitico”. Nell’Età del Bronzo sono i “Cananei” a diventare gli abitanti di quella terra. Gli archeologi riconoscono le conquiste della loro cultura, specie per il Bronzo Medio e Tardo, ma non viene loro attribuita una coscienza nazionale, e la religione è ovviamente descritta come un degenerato culto della fertilità, incapace di accogliere l’impulso etico dello jahvismo, e quindi immorale.
La Palestina può esistere solo di nome, non come realtà dal punto di vista storico o in quanto abitata da Palestinesi. Poiché è arduo negare l’esistenza degli abitanti precedente l’”apparizione” diIsraele, l’approccio normale è stato quello di denigrare le loro realizzazioni e il loro diritto a esistere.

[…] Ritengo che nulla di ciò che è stato scoperto ci ispiri rincrescimento per la soppressione della civiltà cananea da parte di quella israelita [...] La Bibbia non sbagliava nel descrivere l’abominio della cultura cananea, che fu soppiantata dalla cultura di Israele. (citazione discorso del vescovo di Salisbury 1903)

Gli studi biblici paiono infatti rispecchiare lo slogan sionista relativo alla Palestina del XIX secolo: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Nella dottrina biblica, dal suo nascere fino ad oggi, ci imbattiamo in una terra, la “Palestina”, priva di abitanti, o al massimo con abitanti temporanei ed effimeri, in attesa di un popolo senza terra.

Al pari dello spazio, anche il tempo è un concetto politico, uno “strumento di potere costruito ideologicamente” che negli studi biblici è stato manipolato per negare ogni realtà temporale alla storia palestinese.
La storia della Palestina antica, a cui si è negato il tempo, è stata assoggettata e messa a tacere dalla tirannia del tempo biblico, che, attraverso la periodizzazione veterotestamentaria - elemento essenziale degli studi biblici – è stata perpetuata dalla dottrina occidentale. La storia della regione è stata a lungo divisa sistematicamente in epoche patriarcale, dell’Esodo, della Conquista o dell’Insediamento, seguite dalla monarchia unitaria di Davide e Salomone, dai regni separati di Israele e di Giuda, dall’Esilio e infine dalla Restaurazione. La storia della regione, è quindi, storia dei personaggi e degli eventi principali della tradizione biblica.
Un’alternativa alla tirannide esercitata dal “tempo biblico” è la periodizzazione archeologica operata nel Novecento. Si tratta di un’ulteriore espressione dello schema evolutivo del tempo “naturale”, che procede in maniera inesorabile dall’Età della Pietra per giungere, attraverso le Età del Bronzo e del Ferro, sino all’epoca attuale. A un primo esame lo schema potrebbe apparire più neutrale della suddivisione biblica in periodi, ammettendo che vi sia stato un tempo per la storia palestinese. Eppure gli storici biblici hanno tentato di porre sullo stesso piano la periodizzazione della Bibbia e lo schema sviluppato dalla ricerca archeologica. L’Età del Bronzo è così diventata l’Età dei Patriarchi, mentre il Bronzo Tardo è l’Era dell’Esodo e della Conquista o dell’Insediamento; nell’Età del Ferro si assiste all’apparizione e allo sviluppo della monarchia; infine l’Età dell’Esilio o del Secondo Tempio coincide, naturalmente, con le epoche persiana, ellenistica e romana. La negazione del tempo palestinese è quindi ribadita, nello sforzo di reclamare il passato per Israele.
La classica opera di Aharoni (The Land of the Bible. A Historycal Geography) sull’archeologia israelita è rappresentativa dell’uso del tempo fatto dagli studi biblici. Aharoni inizia la sua vasta panoramica con l’ Età della Pietra e con il Calcolitico. La Prima Età del Bronzo è indicata come Primo Cananeo I-IV, la Media Età del Bronzo Medio Cananeo, e la tarda Età del Bronzo come TardoCananeo I-II. Aharoni segue dunque le convenzioni degli studiosi israeliani, designando l’ Età del Ferro come Periodo Israelita. Nella “storia di Eretz Israel” Aharoni attribuisce importanza al Primo Periodo Cananeo, poiché in esso vennero poste le basi per la cultura cananea, sebbene si tratti ancora di un “periodo muto “, “appropriatamente chiamato protostorico”. Il modo in cui il periodo è destituito di ogni valore intrinseco si evidenzia nell’analisi della terminologia: “Il termine “cananeo” ci parrebbe quindi più idoneo, in quanto nome generale per la popolazione del Paese durante la conquista israeliana, quando incomincia un’illuminazione storica più vasta”. Si perviene alla Storia, dunque soltanto con l’apparizione di Israele e delle tradizioni bibliche!

L’invenzione dell’antico Israele

1. La rivendicazione della Palestina: L’immigrazione

Il saggio pionieristico di Albrecht Alt sulla colonizzazione israelita in Palestina (Die Landnahme der Israeliten in Palästina) portò allo sviluppo di ciò che verrà poi definito modello di infiltrazione o immigrazione relativo alle origini israelite, sovente rappresentate come un ingresso pacifico. Nel suo modello evidenzia il ruolo di rilievo rappresentato, nel determinare l’allora geografia politica, da città-Stato attraverso i cui “minuscoli” principi il faraone esercitava il potere, trattando direttamente con loro. Il pieno sviluppo di tale sistema politico comportò l’estrema frammentazione della Palestina, suddivisa in staterelli consistenti in non più di un ristretto territorio attorno alla città e in una manciata di villaggi limitrofi. Alt individua una notevole differenza geografico-politica tra le zone pianeggianti della costa, in cui era situata la maggior parte delle città-Stato, e quelle montagnose, dove la carenza di terre fertili e arabili aveva fatto si che “in quella fase la cultura degli insediamenti montani non avesse raggiunto il livello delle città”. Alt sostiene che, in seguito al collasso della potenza egizia alla fine dell’Età del Bronzo, la “mappa politica della Palestina mutò in maniera totale”: approssimativamente, infatti, nella regione restò appena mezza dozzina di Stati, il che, secondo Alt, si spiega solo con un radicale trasferimento del potere politico. Il drammatico declino dell’Egitto imperiale non è sufficiente a far comprendere le nuove forme di vita politica e le unità territoriali emerse in quel periodo, che non si spiegano neppure con gli sviluppi autoctoniin risposta alla diminuzione del controllo egizio. “Lasciate evolversi autonomamente, era ovvio che le realtà politiche indigene mantenessero la situazione sviluppatasi in quell’area attraverso molti secoli”. Alt ritiene quindi che il cambiamento poteva essere introdotto soltanto dall’esterno, negando così valore alla storia interna della regione. Segue quindi l’affermazione di Alt – non avente alcuna giustificazione – secondo cui la crescita della coscienza nazionale non può essere indigena. Quest’ultima inoltre secondo lo studioso non si attendeva parità di diritti nella fondazione dello Stato d’Israele.

2. La rivendicazione della Palestina: la conquista

Capeggiati da William Foxwell Albright, gli studiosi americani hanno elaborato una costruzione alternativa della conquista israelita in Palestina. Albright mirava a dimostrare che vi erano prove “oggettive” a sostegno del quadro offerto da una parte delle tradizioni bibliche, ossia quello dell’invasione e della conquista. Attribuì pertanto un’importanza molto maggiore ai crescenti dati archeologici, al fine di sostenere la tradizione biblica relativa ad una breve campagna militare che devastò un certo numero di centri urbani palestinesi. Analogamente ad Alt, Albright attribuiva ad Israele l’incremento dei villaggi sulle alture durante il passaggio all’Età del Ferro. In ogni caso non si trattò di un’immigrazione pacifica, bensì di un’irruzione improvvisa e violenta, che distrusse la cultura urbana della Palestina.
L’assunto di una conquista israelita della Palestina, derivante dalla combinazione fra tradizioni bibliche e dati archeologici, porta Albright a concludere che

[...] la popolazione dell’originaria Palestina israelita era composta da tre gruppi: Ebrei pre-israeliti, Israeliti veri e propri e Cananei di origine eterogenea. Gli Ebrei si amalgamarono con i loro cugini Israeliti tanto rapidamente che, in pratica, nella letteratura biblica si è perso ogni riferimento a tale distinzione e le scarse allusioni apparenti sono dubbie. I Cananei furono condotti all’ovile israelita per mezzo di accordi, conquista o graduale assorbimento.

3. Non viene sollevato alcun dubbio sulla legittimità del diritto di Israele alla terra.

Continua inoltre Albright:

[...] Per il futuro del monoteismo è stata una fortuna che gli Israeliti della Conquista fossero un popolo barbaro, dotato di energia primitiva e di spietata volontà di vivere, dal momento che la conseguente decimazione dei Cananei evitò la completa fusione dei due popoli affini, che, quasi inevitabilmente, avrebbe abbassato il modello jahvistico sino ad un punto di non ritorno.

Da parte di un’icona degli studi biblici del Novecento la giustificazione dello sterminio della popolazione palestinese è degna di nota per due ragioni: essa esplicita un razzismo che sconcerta, ma ugualmente impressionante è che, a quanto risulta, gli studiosi biblici non si soffermarono mai su quelle affermazioni, né le commentarono.
L’influenza pervasiva esercitata dall’ipotesi di una conquista israelita raggiunge il culmine nell’opera di John Bright intitolata A History of Israel. In essa Bright ammette che, con la sua grande cultura urbana e l’invenzione della scrittura, Canaan realizzò conquiste materiali e culturali, ma afferma che la sua religione era immorale e corrotta: “Comunque sia, la religione cananea non offre un quadro gradevole. Essa, infatti, era una forma abietta di paganesimo, specie per il culto della fertilità”. Ciò contrasta con la fede israelita che, “assolutamente ineguagliata nel mondo antico”, pose Israele al di fuori del suo ambiente, facendone il fenomeno peculiare e creativo a noi noto. Bright non pone in dubbio la storicità della tradizione biblica della conquista, storicità che “non dovrebbe più essere negata”.

4. La rivendicazione della Palestina: la lotta interna.

Dedichiamo ora un accenno a George Mendenhall al quale viene attribuita un’interpretazione alternativa delle origini di Israele. Secondo Mendenhall l’elemento esterno era costituito da un piccolo gruppo che agì da catalizzatore per l’insoddisfatta e sfruttata popolazione palestinese. E il fattore chiave di tale “rivoluzione biblica”, come lo studioso la definisce, non fu la rivolta dei contadini indigeni, ma la rivoluzione religiosa. La terra, infatti, appartiene alla Divinità e quindi è oggetto di dazione divina, il che giustifica il passaggio dello spazio palestinese sotto il controllo israelita. In tale ottica l’immorale e corrotta cultura autoctona non poteva reclamare la terra. La “conquista della Palestina” da parte di Israele è l’affermazione di quel dono divino.

5. L’ipotesi di uno Stato israelita

Creare uno stato rivendicando un’epoca passata.
L’”apparizione” dell’antico Israele durante il periodo di passaggio all’Età del Ferro costituisce soltanto un momento decisivo nella storia della Palestina, mentre la creazione di uno Stato israelita rappresenta per gli studi biblici il momento decisivo.
Ma poiché il moderno Stato d’Israele si richiama proprio alle sue origini nell’Età del Ferro, sicuramente gli sforzi della dottrina biblica nel ricercare una monarchia davidica non sono dovuti ad un mero interesse antiquario. La Dichiarazione di indipendenza, proclamata a Tel Aviv il 14 maggio 1948 dal Consiglio di Stato provvisorio, annuncia infatti il “ristabilimento dello Stato ebraico”. Ogni tentativo di considerare obiettivamente e disinteressatamente non soltanto il passato, ma anche la realtà e le lotte politiche contemporanee, prendendo le distanze dalle implicazioni pratiche della ricerca ispirata alla Bibbia, viene abbandonato sin dai paragrafi iniziali:

Nella terra d’Israele è nato il popolo ebraico. Qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e nazionale. Qui esso ha vissuto una vita indipendente, ha creato valori culturali di portata nazionale e universale e ha dato al mondo la Bibbia.
Esiliati dalla terra di Israele, gli Ebrei le restarono fedeli attraverso tutte le dispersioni, e non cessarono mai di pregare e di sperare nel ritorno alla loro terra e nel ripristino in essa della libertà politica.
Spinti da questa duplice aspirazione, nei secoli gli Ebrei anelarono a tornare nella terra dei Padri e a stabilirsi nella loro Patria.

Il diritto alla terra viene dunque proclamato in base ad un precedente storico: l’esistenza nella regione di un antico Stato israelita, sovrano e indipendente.
Come si è visto, spesso tali rivendicazioni implicite ed esplicite sottendono la costruzione di un passato mitico, di un’apparizione israelita in Palestina. Il rivendicare o reclamare esplicitamente la terra in virtù di quel precedente storico poggia su un’opinione diffusa, che ha improntato a lungo la percezione politica e popolare del moderno Israele e del suo diritto al territorio. In un appunto scritto da Lord Balfour due anni dopo la sua famosa Dichiarazione del 1917, che conferiva al governo britannico l’incarico di sostenere la “costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”, si legge infatti:

I quattro Grandi si sono impegnati a favore del sionismo. E, sia esso giusto o sbagliato, buono o cattivo, il sionismo è radicato in tradizioni passate, in bisogni presenti, in speranze future dal significato ben più profondo che non i desideri e i pregiudizi dei 700.000 Arabi che attualmente abitano quell’antica terra.

Come si è accennato in questa sintesi quindi per la cosiddetta apparizione di Israele una quantità di tesi convenzionali ha permeato la riflessione sugli inizi di un antico Stato Ebraico. E ciò è stato immancabilmente presentato come scienza obiettiva, indipendente dalla sporca politica.
Non si è posto in dubbio che la discussione accademica su un passato Stato israelita possa essere in rapporto con le presenti rivendicazioni di una terra di Palestina, dando invece per acquisito che gli studi biblici non abbiano nulla a che vedere con le attuali lotte per l’identità e il territorio, quando in realtà il vero e proprio silenzio sulla Palestina e il suo passato è servito solo a legittimare le rivendicazioni di un passato da parte di Israele e l’esclusione di ogni rivendicazione alternativa.
Dubbio che occorre porci per poter ridare alla Palestina la sua Storia sino ad oggi negata.

Sintesi elaborata
da Marco Linguardo
Associazione Culturale Thule Italia

fonte: “Rinascita”, 22 gennaio 2006

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Keith W. Whitelam

L’Invenzione dell’antico Israele. La Storia negata della Palestina

ECIG - Collana: Nuova atlantide - Serie: Alle radici della storia

Pagine 285 – Formato 14×21 – Anno 2005 – ISBN 8875440204
Argomenti: Saggistica, Storia antica

Prezzo di copertina € 21.00

Indice – Sommario

Introduzione: la storia negata della Palestina

I. Testi parziali e storie spezzate

II. Lo spazio e il tempo negati alla storia palestinese

III. L’invenzione dell’antico Israele

IV. L’ipotesi di uno Stato israelita

V. La ricerca prosegue

VI. La Palestina reclama la sua storia

Note

Bibliografia

Indici

 

http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=754&Itemid=

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