Jenin, tre anni dopo

Pubblicato il 7 aprile 2005 da Gazzella
 

di Samir Khweira

giovedì, 07 aprile 2005

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Sono passati tre anni da quel terribile aprile 2002, ma i ricordi sono ancora scavati nella memoria dei testimoni. Gli abitanti del campo di Jenin raccontano i particolari di un massacro e dell’eroica resistenza.

Una madre e i suoi bambini strisciano per terra rotolando da una stanza ad un’altra, per paura dalle pallottole che piovono da ogni parte; ode l’adhan, il richiamo per la preghiera della sera, alza le mani e gli occhi verso il cielo invocando il Signore affinché la salvi con la sua famiglia dalla morte…

Una scena che i migliori registi non riescono a realizzare, mentre si tratta della realtà vissuta da Umm Ramzi – «la madre di Ramzi» – con la sua famiglia durante la grande invasione israeliana del campo di Jenin nell’Aprile del 2002, durante la quale le forze d’occupazione commisero un massacro ammazzando decine di martiri e provocando centinaia di feriti, così come la distruzione di  case ed altre strutture. Umm Ramzi torna con la memoria al massacro: “Le pallottole potevano ammazzare me e i miei familiari… molte pallottole hanno trapassato i muri della nostra casa… ci siamo sentiti in pericolo, così ci siamo buttati tutti per terra ed abbiamo cominciato a strisciare verso la cucina ripetendo la testimonianza di fede [la shahada, che recita “Non c’è divinità se non Iddio e Muhammad è l’Inviato di Dio, NdT]… sentivamo la morte che ci attaccava da ogni parte”.

Ed ha poi aggiunto Umm Ramzi, che ha la casa completamente distrutta: “Mio marito si stava preparando per fare l’abluzione per la preghiera della sera, quando siamo rimasti sorpresi dal bombardamento – al quale hanno partecipato anche degli aerei – da parte di carri armati posizionati nella piazza centrale del campo”.

Il quartiere di al-Hawashin, nella parte ovest del campo, è diventato famoso: le escavatrici israeliane hanno distrutto tutte le sue case spianandole al livello del terreno. La sequenza di eventi terribili vissuti da migliaia di famiglie dello stesso quartiere a partire dalla sera del quinto giorno della battaglia del campo di Jenin, è iniziata quando a causa della fermezza degli abitanti i carri armati israeliani accerchiarono il campo impedendone l’accesso.

Umm Ramzi prosegue nel racconto: “Tutti, nel campo, avevano deciso di resistere con fermezza. Poi hanno cominciato a demolire le case, ci hanno buttato nelle strade sotto la pioggia e al freddo: decine di bambini, donne e anziani tremavano dal freddo. Così abbiamo affrontato la durezza israeliana ed una morte lenta, in specie quando il bombardamento si è fatto più intenso”. Umm Ramzi parla di quei giorni come dei “più duri e più difficili” della sua vita, ed ha detto: “Ci muovevamo strisciando per terra, dormivano in cucina sotto le sedie, mentre le pallottole provocavano l’incendio nella casa del nostro vicino Abu Ahmad, il quale si è salvato per miracolo” .

Da parte sua, Abu Ahmad Jaradat, raccontando ciò che è successo a lui e alla sua famiglia in quella notte nella quale gli aerei israeliani hanno bombardato il campo gettando più di mille bombe (come hanno detto i responsabili israeliani), ha detto: “In solo attimo ci si trovava tra la morte e la vita. Ad un tratto, ci sono piovute le pallottole dentro la casa, dove mi trovavo seduto con la mia famiglia, così abbiamo iniziato a strisciare per terra verso la casa vicina, ed appena usciti la nostra casa si è incendiata, e tutto è andato distrutto”.

Naser Farahneh, la cui famiglia ha vissuto più di venti giorni all’aperto, afferma che ancora 650 famiglie vivono disperse fuori dal campo ed attendono di farvi ritorno, quando finirà la ricostruzione.

Sui crimini israeliani commessi nel campo, Ibrahim Dababneh, il direttore della Mezza luna rossa, esclama: “Le ambulanze ed i soccorritori furono impediti ad entrare nel campo durante tutto il periodo del massacro. Circondarono la Mezza luna rossa e l’ospedale, ci hanno sparato addosso ed hanno impedito di evacuare i feriti: qualcuno ha perso sangue fino al martirio, ed i cadaveri dei caduti sono rimasti nelle strade”.

‘Abd el-Razeq Abu l-Haija’, Direttore dell’ufficio dell’Onu che si occupa profughi palestinesi (UNRWA), ricorda: “L’occupante ha distrutto intenzionalmente le reti della corrente, dell’acqua, dei telefoni e delle infrastrutture, isolando il campo dal mondo, impedendo alle Nazioni Unite, alla Mezza luna rossa ed ai giornalisti l’ingresso nel campo durante i massacri”.

Faryal al-Shalabi non riesce a dimenticare la morte del marito e del vicino: “Ho visto i soldati quando hanno arrestato mio marito (Wadah), mio zio e il nostro vicino ‘Abd el-KArim as-Sa‘di. Li hanno messi sul portone di casa e gli hanno sparato: mio marito e as-Sa‘di sono morti, e mio zio si è salvato per miracolo. I cadaveri sono rimasti in strada fino alla fine del massacro, e non ho potuto gridare per paura di essere scoperta dai soldati ed uccisa”. “I carri armati e le escavatrici hanno cominciato a distruggere le case sui loro abitanti, visto che non hanno potuto occupare il campo. Hanno arrestato tutti gli uomini e li hanno buttati per la strada, per poi costringerli a spogliarsi davanti ai nostri occhi. Ma non gli è bastato questo: ci hanno cacciato fuori dal campo, in strada, dove c’erano molte situazioni terrificanti… abbiamo visto tanti cadaveri gettati e fatti a pezzi, ed un carro armato che passava sopra il cadavere del martire Jamal as-Sabbagh, mentre i soldati torturavano i feriti”.

In base ai dati ufficiali palestinesi, furono uccisi 63 palestinesi, centinaia furono i feriti, più di 450 le case demolite, e tutti i maschi del campo di età tra i 15 e i 50 anni vennero arrestati; i caduti da parte israeliana, come hanno ammesso ufficialmente gli israeliani, furono 32, e decine i feriti.

Jamal Zayed spiega come un gruppo di resistenti prese come base l’appartamento vicino al suo: “Non riesco a credere a ciò che hanno visto i miei occhi. Lo scontro era faccia a faccia: più s’intensificavano i bombardamenti, più saliva il morale dei combattenti, i quali rifiutavano di arrendersi. Gli invasori non poterono andarsene né avanzare di un solo metro per più di dieci giorni, perché la resistenza gli stava addosso”. “Anche gli angeli combattevano con noi nel campo. Quante volte venivano circondati i combattenti e, all’improvviso, si liberavano dall’assedio mentre i sionisti si ritiravano… Li ho visti (i soldati israeliani) piangere ed insultare Sharon…”.

Umm ‘Ali ‘Uways racconta di quel giorno in cui con le donne del quartiere collaborava alla fornitura del cibo ai combattenti: “La resistenza del campo rimarrà nella leggenda. Grazie all’intelligenza, alla forza e alla volontà dei combattenti che si disposero in ogni angolo del campo, riuscendo a tendere imboscate ai soldati”. “Erano una sola mano, e nessuno li divideva. Un un’unica voce e un unico sogno. Ho visto sempre le loro facce piene di luce e ripetevano «Allahu Akbar» (Iddio è il più grande) ad ogni attacco. Degli eroi: quando i soldati ci circondavano e ci minacciavamo, essi li attaccavano, e mettendo la loro vita in pericolo ci mettevano in salvo”.

Ahmad Abu A‘lya narra: “Non vedevamo dentro il campo altro che i resistenti che si equipaggiavano e seminavano le mine nelle viuzze… ispezionavano gli ingressi del campo, i loro quartieri generali, e distribuivano agli abitanti del campo generi alimentari ed altri beni necessari”. “Era meravigliosa questa armonia tra gli abitanti del campo ed i resistenti; il campo intero ha stretto in un abbraccio quei resistenti che l’hanno difeso con tutta la loro forza, e per questo le forze occupanti non sono potute entrare nel campo fintantoché i resistenti non hanno esaurito le loro armi. Il loro magnifico comportamento resterà nella storia”.

La resistenza unitaria nel campo di Jenin era stata preparata bene, sin dalla fine del precedente attacco al campo: poiché tutti erano convinti che era necessaria una grande resistenza, vennero raccolte armi, addestrati i combattenti e preparati i piani. C’era anche una stanza dove venivano coordinate le operazioni unitarie dei resistenti delle Brigate al-Qassam, l’ala militare del movimento di resistenza islamica Hamas, le Brigate dei Martiri di al-Aqsa appartenenti ad al-Fatah e le Brigate di al-Quds del movimento di al-Jihad al-Islami.

Il martire Mahmud Abu Hulwa era il comandate sul campo delle pregate al-Qassam, il martire Mahmud Tawalba il comandante sul campo delle Brigate al-Quds, e il martire Ziyad al-‘Amer il comandante sul campo delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa sul campo della battaglia, mentre il martire Yusuf Rayhan, conosciuto come ‘Abu Jandal’, comandava una squadra della Sicurezza Nazionale impegnata sotto la sua guida nelle battaglie avvenute nel corso degli attacchi al campo.

Il giornale palestinese «Al-Hayat al-Falastiniyya» (La vita palestinese), nel suo numero uscito ieri sabato 2 aprile 2005, riporta il racconto di uno dei combattenti salvatisi. Egli descrive la preparazione alla battaglia: “Avendo valutato tutti gli errori commessi durante gli attacchi precedenti, avevamo preso adeguate contromisure; la più importante era questa: siccome le forze d’occupazione all’inizio di ogni attacco tagliavano le linee telefoniche, fisse e mobili, per impedire le comunicazioni tra i combattenti ed isolare il campo con l’esterno, decidemmo allora d’introdurre telefoni israeliani ‘Orange’ con apertura di comunicazione verso i telefoni palestinesi ed i cellulari”.

“Ciascun gruppo aveva i suoi depositi, coordinati con quelli degli altri gruppi, e ad ogni deposito venne assegnato un responsabile. Tutti i preparativi vennero fatti per bene: fu stabilito un piano di valutazione della capacità di resistenza del campo in base ad un uso pianificato delle armi, e venne  istituita una commissione per coordinamento tra i vari quartieri in moda da coprire eventuali insufficienze delle scorte di armi”.

fonte: as-Sabil (Giordania), 3 aprile 2005
Traduzione di M. Kh. per Aljazira.it

Sullo stesso argomento v. anche: «Jenin Jenin»: un film per la pace e la giustizia.

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