Argomenti di discussione : Guerra e pace in Palestina

Pubblicato il 2 gennaio 2002 da Gazzella
 

Nella nostra parte del mondo hanno ancora cittadinanza, per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, due atteggiamenti complementari: c’e’ chi si sorprende per il fatto che esso non trovi ancora una soluzione pacifica, ma evita con ogni cura qualsiasi presa di posizione sul merito di cio’ che accade, e c’e’ chi si sente tenuto a una “equidistanza” rispetto alle parti, o a privilegiare, nella ricerca della pace, quella che collega una sua rivendicazione di primogenitura alla memoria del martirio degli ebrei nei campi di sterminio nazisti, sicche’ l’altro popolo dovrebbe accontentarsi di limitate concessioni.L’esperienza di mezzo secolo attesta che l’uno e l’altro atteggiamento, lungi dall’ avvicinare la pace, perpetuano il fallimento degli sforzi rivolti a questo fine. Il primo, perche’ semplifica un problema complesso e ipotizza soluzioni indolori, che non esistono. Il secondo perche’ lo squilibrio fra torti e ragioni delle parti, presente fin dall’inizio, si e’ ingigantito nel tempo e collocarsi “nel giusto mezzo” significa oggi, in linea di fatto, incoraggiare l’intransigenza dei vincitori e serrare il cappio attorno al collo dei perdenti. In questo senso, era nel vero lo storico polacco Isaak Deutscher, ebreo ma duramente critico verso il tipo di “soluzione” che Israele incarna, quando affermava che il mondo, per i suoi peccati di antisemitismo prima, e per l’acquiescenza mostrata verso le sopraffazioni israeliane, poi, e’ piu’ colpevole delle parti in causa.

Una tragedia nazionale. – Problema complesso, si e’ appena detto. E’ vero, per esempio, che le ondate di immigrazione ebraica affluite nella Palestina-Israele negli anni della persecuzione nazista (1932-45) e in quelli immediatamente successivi (1945-48) sono state numericamente superiori a quelle precedenti – 370.00 contro 177.000 – ma e’ vero anche che questo apporto e’ oggi nettamente minoritario rispetto al totale della popolazione israeliana – 6 milioni 100.000, secondo l’ultimo censimento – che ha tutt’ altra provenienza. Sostenere che la creazione di uno Stato ebraico in Palestina – anzi , la trasformazione dell’intera Palestina in uno Stato ebraico, secondo l’obbiettivo enunciato dalla conferenza sionista di New York (1942) – sarebbe conseguenza di quella persecuzione e da questa sarebbe legittimata e’ palesemente infondato. Il movimento sionista era nato quasi mezzo secolo prima e gestiva il tentativo di “ebraizzazione” della Palestina secondo i suoi propri orientamenti e programmi, che nulla avevano a che fare con l’antinazismo.

Gli stessi argomenti valgono, a maggior ragione, per la cacciata, manu militari, di ottocentomila civili palestinesi, la grande maggioranza, cioe’, della popolazione dei territori su cui Israele affermo’ il suo controllo nel 1947-48 e per la riduzione del rimanente alla condizione di minoranza oppressa. E’ una cifra di per se’ eloquente, che dovrebbe far riflettere chi tuttora cerca in motivi irrazionali la spiegazione dell’abisso che si e’ scavato tra i due popoli. Altro che antisemitismo, altro che fanatismo religioso. Come avrebbe reagito un europeo, mettiamo un italiano del secolo scorso, se gente venuta da altri paesi lo avesse, nel giro di poche settimane, scippato della sua aspettativa di indipendenza nella sua unica “patria” storica, della casa, delle bestie da lavoro e di ogni mezzo di sussistenza, e avesse chiamato altri sconosciuti a sostituirsi a lui in diritto e in fatto? Non a caso, i palestinesi si riferiscono a quella pagina della loro storia con la parola “catastrofe”. Ma quell’evento, con tutti i suoi effetti dirompenti, e’ solo l’inizio. Tre guerre e diverse crisi piu’ tardi, dopo aver conquistato con le armi l’intero territorio della Palestina originaria, il gruppo dirigente di Israele proclamava apertamente il proposito di tenersi tutto. L’occupazione proseguita senza mutamenti di sostanza per piu’ di trenta anni e la colonizzazione che l’ha accompagnata si estesa a macchia d’olio, tanto da prefigurare una Palestina ghettizzata, territorialmente frammentata e dipendente, in parte occupata, in parte rioccupabile in qualsiasi momento. Dal ’67 a oggi, da quella parte non e’ venuta alcuna proposta costruttiva, neppure in risposta a cambiamenti importanti dell’atteggiamento palestinese, come l’adesione alla formula dei “due Stati”.Un mondo meno vivibile. – Anche in questo tentativo dimettere in mora, per quanto lo riguarda, la legge internazionale. Israele trova chi lo comprenda, chi lo ammiri e, come era logico aspettarsi, chi lo imiti (quante “pulizie etniche”, nel mondo, dal ’67 in poi, sperando in un’eguale impunita’). Molti dei mutamenti in peggio che il mondo ha registrato negli ultimi anni sono venuti da quel laboratorio. Nel 1956, Israele si alleo’ alla gran Bretagna per attaccare l’ Egitto, e occupo’ il Sinai, ma dovette ritirarsi, su richiesta americana, nel giro di settimane, oggi aggira ed elude i consigli della Casa bianca e i suoi soldati sono addestrati a sparare sui bambini; ieri descriveva i suoi esperimenti come socialisti, oggi elegge come primo ministro un personaggio che non sfigurerebbe sul banco degli accusati in un processo per crimini di guerra.

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