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LETTERA 79

febbraio 2002

 

Care amiche, cari amici, credo fosse il mese di settembre del 2000 quando in LETTERA vi parlai del Progetto “Gazzella”, varato da due straordinarie persone: Marisa Musu e Marina Rossanda. Dandole il nome di una bambina palestinese di 12 anni, colpita alla testa da un soldato israeliano mentre tornava a casa da scuola e rimasta a lungo fra la vita e la morte, Marisa e Marina, con un gruppetto di altri gene-rosi avevano appena dato vita, a quell’epoca, a una rete di solidarietà insieme politica e affettuosa. Avevano, cioè, lanciato la proposta di adozioni a distanza di piccoli palestinesi feriti o mutilati nel corso della Seconda Intifada.

E’ passato poco più di un anno e nonostante la penuria di mezzi e - naturalmente! – il silenzio dei giornali, il progetto ha preso quota: e poiché le animatrici di “Gazzella” dicono che i primi “adottori” sono stati gli amici di LETTERA, mi sembra giusto informarvene: tanto più che la situazione palestinese ci carica di un’angoscia dalla quale possiamo uscire soltanto con gesti concreti di rottura del silenzio e dell’inerzia.

Gli amici di Gazzella si sono riuniti recentemente per il loro primo “congresso”: gente meravigliosa, venuta da tutte le parti d’Italia: La loro rete si è ormai distesa come una carezza su 287 bambini palestinesi.

Bambini di Palestina

Come vi scrivevo in quella LETTERA ormai lontana, da cinquant’anni, anzi da cinquantaquattro, noi ogni giorno ci alziamo, portiamo i bambini a scuola, andiamo al lavoro, ritorniamo a casa, mangiamo, ci abbandoniamo al sonno e intanto in Palestina muoiono ammazzati uomini donne e bambini: 361 bambini uccisi dal settembre 2000, uno di 13 anni assassinato il 17 febbraio scorso, quasi a impedire che ci illudessimo di una pausa di questa atroce contabilità. No, non è un genocidio, i giuristi negano che si possa definirlo così. Allora diciamo: è uno stillicidio omicida, come se il tempo fosse segnato da una mostruosa gigantesca clessidra attraverso la quale passano, ma sempre più velocemente, non granelli di sabbia ma corpi di uccisi.

Da cinquant’anni, anzi da cinquantaquattro, noi ci innamoriamo, sogniamo, preghiamo, frequentiamo concerti, organizziamo feste fra amici, ci commoviamo leggendo le pagine di grandi scrittori, tentiamo di scrivere poesie e di imparare nuove canzoni, e intanto uomini donne bambini palestinesi continuano a morire ammazzati: uno dopo l’altro, o in stragi crudelissime, dietro le muraglie di una totale incapacità di reazione dell’opinione pubblica internazionale e di un’acquiescenza dei governi democratici che rimarranno una vergogna per la storia del nostro tempo.

In questo mezzo secolo di martirio palestinese, nei tranquilli territori europei alcuni di noi sono giunti alla vecchiaia, altri hanno maturato la loro giovinezza, ed altri ancora sono nati, sono cresciuti, hanno imparato le tecniche per entrare in contatto con persone lontanissime da loro mentre a due ore di distanza di aereo i palestinesi continuavano a morire, in diverse maniere.

Nei primi decenni ci sono state, “laggiù”, guerre terribili. Allora per qualche giorno – o settimana – siamo stati costretti da orrendi rumori e visioni di massacri a pensare al Medio Oriente. Ma gli eserciti innalzano le loro bandiere proprio per farci sapere che la guerra è cosa loro, noi ne siamo fortunatamente (almeno direttamente) esclusi. Così a quel sangue e a quelle morti abbiamo dedicato l’attenzione dolorosa – o forse soltanto perplessa - che si presta ad eventi che sono atroci e disgustosi ma che, in fondo, non ci appartengono. Oppure è accaduto a non pochi di prendere posizione su quelle guerre, parteggiando per il “piccolo”, moderno, civile, “occidentale”, “europeo” Israele aggredito da arabi fanatici, straccioni e sporchi. Ricordo ancora sui parabrezza di molte automobili milanesi l’adesivo “Io sono per Israele”.

Poi le guerre si sono rivelate più che mai inutili, il “piccolo” Israele minacciato essendo in realtà un gigante, issato com’è sulle spalle degli Stati Uniti e difeso dalle armi dell’Impero; e anzi qualcuno di noi ha capito che in quella faziosità filo-israeliana era contenuto un grano di razzismo. Franco Fornari, grande psicoanalista, ci ammoniva: concedere a Israele il diritto di comportarsi in modi che non si consentirebbero ad altri popoli significa pensare che esso è qualcosa di geneticamente diverso da noi

Come se fossero vittime del traffico

Finita l’epoca delle guerre, è cominciata la più macabra delle routines. Come le stragi sulle strade degli week-end nei paesi industriali, le morti di uomini donne e bambini palestinesi scandiscono nel Medio Oriente le cronache di una violenza che, nella sua insensatezza, sembra ormai inestirpabile. Negli ultimi anni i palestinesi non sono morti di guerre ma sono morti di nostalgia nell’esilio, di miseria da espropri e da disoccupazione, di torture, di prigionie nel deserto, di malattie da repressione: denutrizione, mancanza d’acqua, ritardi nei soccorsi medici a causa dei blocchi stradali, immensa difficoltà di stabilire un minimo di condizioni igieniche nei campi profughi, in cui per mezzo secolo centinaia di migliaia di persone sono state costrette a vivere e in cui per mezzo secolo gli israeliani hanno impedito ogni miglioria. Negli ultimi sedici mesi i palestinesi sono morti soprattutto di spietate rappresaglie di ogni loro atto insurrezionale. Ma si potrebbe dire che i palestinesi sono morti e muoiono soprattutto di solitudine perché il loro martirio di mezzo secolo è anche e soprattutto amara consapevolezza di costituire per l’opinione pubblica internazionale ben più un fastidio che un problema.

 

I bambini prigionieri

In mezzo a questa solitudine, a questo sangue, a queste case sventrate dai bulldozers si muovono i bambini palestinesi; e molti non si muovono affatto, perché dal settembre 2000 ad oggi più di 700 sono stati incarcerati, cioè rinchiusi in celle, insieme a delinquenti “comuni”, adulti, e quindi esposti non soltanto alle inevitabili brutalità del sistema carcerario ma anche a rischi facilmente intuibili.

Il 26 gennaio scorso si è svolta a Bruxelles una conferenza organizzata dalla parlamentare europea Luisa Morgantini, straordinaria donna che moltiplica le proprie iniziative a favore dei diritti umani con una generosità che ha pochi riscontri nella classe politica del nostro Paese. In questa conferenza hanno parlato il palestinese Quzman Khaled della Defence Children International e Tamara Pelled-Sryck dell’associazione israeliana Hamoked. Hanno portato cifre e illustrato il contesto dell’infanzia negata ai bambini palestinesi. Riassumo: i piccoli uccisi sono stati: colpiti per la maggior parte alla testa, cioè non per errore o per una pallottola di rimbalzo ma con volontà di uccidere. 8450 bambini sono stati feriti o sono rimasti mutilati, e di essi 980 hanno riportato mutilazioni o lesioni permanenti. I posti di blocco e i coprifuoco rendono difficilissime la possibilità di tempestivi interventi sanitari, cosicchè si aggravano ferite ed emorragie che avrebbero potuto essere soccorse con risultati ben migliori. Quanto ai bambini incarcerati, le due relatrici hanno denunziato l’uso quasi “normale” della tortura da parte dei militari, il diritto alla difesa tramite avvocato quasi sempre negato, processi superficiali, sommarî, che portano a condanne di una severità inaudita e a pesanti ammende inflitte ai genitori, le visite delle famiglie a questi piccoli dannati all’inferno carcerario affidate alla discrezionalità dei militari e via dicendo.

I sorrisi spenti

361 bambini morti, 8450 feriti, 700 incarcerati in un anno e mezzo sono le cifre che conosciamo; ma nessuno può dirci il numero dei piccoli palestinesi che avendo vissuto forti traumi psichici, sono ora profondamente feriti nella loro identità. Ho parlato recentemente con una psicologa tedesca che veniva dalla Striscia di Gaza, mi ha raccontato di bambini segnati da difficoltà di apprendimento, incubi notturni, tremiti, fobie- “Bambini – mi ha detto – incapaci di sorridere, bambini che forse non sorrideranno mai più”.

Il regime coloniale comporta inevitabilmente la violazione sdei diritti umani più elementari e pone Israeleal di fuori degli stati che osservano le convenzioni internazionali. Viene sistematicamente violata anche quella sui diritti del bambino, pur ratificata dallo stato sionista. In realtà Sharon e i suoi stati maggiori hanno i cestini della carta straccia pieni di risoluzioni umanitarie e di testi internazionali: “chiffons de papier”, come si diceva una volta, fazzoletti di carta.

Già, ma noi?

Care amiche, cari amici, so bene che facendolo mi renderò odioso ma vorrei chiedervi uno sforzo di fantasia: quello di pensare ai bambini che più amate, e di vederli per un momento, per un solo momento, collocati, per una sorta di malvagio incantesimo, nell’allucinante paesaggio palestinese: No, non vi chiedo di raffigurarveli morti o mutilati o feriti; e neppure terrorizzati mentre la loro casa viene demolita da un bulldozer per rappresaglia. Questi sono, per così dire, casi estremi, anche se frequenti. Vorrei semplicemente che pensaste a quei vostri cari mentre assistono allo spettacolo del loro fratello maggiore portato via di notte da militari nemici, del padre obbligato a mettersi in ginocchio con le mani dietro la nuca (un padre che non può difendersi, tanto meno può difenderli), della madre costretta a subire davanti agli occhi dei figli perquisizioni umilianti. E queste sono scene “normali” nei territori occupati. Non parlo di sangue. Parlo della bambola strappata dalle braccia della sua padroncina e sventrata a un check-point perché potrebbe contenere una bomba, parlo del piccolo uliveto che i bambini avevano imparato ad amare come parte della sua casa, e improvvisamente viene sradicato per tracciare una strada riservata ai coloni; parlo delle scuole perennemente chiuse per ordine degli occupanti, o dei coprifuoco che durano intere giornate mentre in casa mancano acqua, cibo, medicinali. Bambini che non solo subiscono la paura dei bombardamenti, l’incubo degli elicotteri, il rombo minaccioso dei carri armati ma anche la profondissima insicurezza che nasce dal contemplare la disperazione dei genitori. Pensate, vi prego, a che accadrebbe “dentro” a un adolescente che amate se egli vivesse in un luogo come la striscia di Gaza e proprio mentre allunga il suo sguardo sulle realtà della vita per valutarne il bene e il male sapesse ciò che accade in una delle quattro zone in cui i militari israeliani hanno diviso quel territorio: 1500 privilegiati consumano il 36% dell’acqua disponibile e di migliore qualità mentre 230 mila persone ( fra le quali lui, il vostro ragazzo) devono contentarsi del 64% e di peggiore qualità. Riuscite a pensare quali accumuli di rabbia e anche di odio – sì, diciamola l’orrenda parola - si creerebbero nel suo cuore? Nel 1991, visitando con un gruppo di deputati italiani i campi profughi palestinesi, ho parlato con ragazzi del genere. Negli anni seguenti mi sono spesso domandato se qualcuno di loro non si sia tramutato in bomba umana.

I 56 Giusti di Israele

Questi esercizi di fantasia, credetemi, non mi sono permesso di chiederveli per sadismo ma in nome della verità. Perché, vedete: i bambini palestinesi sono del tutto identici ai nostri e le loro condizioni di vita influenzeranno il futuro dei nostri cari. Se noi non siamo capaci di identificarci con gli oppressi, e di comportarci di conseguenza, vincendo pigrizie, paure, senso di impotenza, tentazioni di egoismo ci avviamo a un degrado progressivo dal punto di vista etico e culturale.

E’ contro quel degrado che oggi si muovono molti meravigliosi israeliani.

Penso ai duecento riservisti che affrontano l’accusa di diserzione perché, si rifiutano di obbedire a ordini che, hanno scritto in un loro documento, “stanno distruggendo tutti i valori di questo paese” e perché, dicono ancora, non vogliono più combattere “per dominare, espellere, affamare, umiliare un intero popolo”.

Penso a Sulamit Aloni, docente all’università di Tel Aviv, che, un anno fa, al parlamento europeo, mostrando il numero tatuato sul suo braccio dagli sgherri nazisti, gridava che neppure l’orrore della Shoa autorizzava Israele a ghettizzare, reprimere e avvilire il popolo palestinese.

Penso soprattutto a Nurit Peled-Elhahan, scrittrice, docente universitaria, che tre anni fa ha perso una figlia tredicenne in un attentato di Hamas e che da allora si batte contro chi non vede le spaventose responsabilità del regime di occupazione, un regime – dice - “che umilia, affama, nega lavoro, demolisce le case, distrugge i raccolti, ammazza i bambini, incarcera i minori in condizioni terribili e spesso senza processo, lascia che i bambini piccoli muoiano ai check-point – e diffonde bugie”. Per Nurit non ci sono differenze fra i 26 bambini israeliani morti per attentati terroristici e i bambini palestinesi uccisi dai militari. Lei dice: “Nel regno della morte i bambini israeliani giacciono accanto a quelli palestinesi, i soldati dell’esercito d’occupazione accanto agli attentatori suicidi e nessuno ricorda chi era Davide e chi era Golia”. E Nurit dice: “Propongo che i genitori i quali non hanno ancora perso i loro figli prestino attenzione alle voci che salgono dal regno della morte, sul quale camminiamo giorno dopo giorno e ora dopo ora, e che ci insegnano che non c’è differenza fra una vita e un’altra, che poco importa quale sia il colore della nostra pelle o della nostra carta d’identità o quale bandiera sventoli su una collina o quale sia la direzione verso la quale ci dirigiamo pregando”.

Dice una leggenda ebraica che ci saranno sempre 56 Giusti per amore dei quali Dio mitigherà ka sua collera.

Protagonisti o vittime

E’ un “pensare in positivo”, creativo, attivo, quello cui siamo sollecitati dalla tragedia medio-orientale e questo pensare e creare gesti coerenti è l’unico modo per uscire da un’angoscia che altrimenti si sedimenta in noi, in una specie di necrosi dell’anima. Quell’angoscia possiamo fingere di non avvertirla, rimuoverla, nasconderla sotto altri pensieri, come quello della nostra supposta impotenza, ma farlo è del tutto vano, come la stupidità della casalinga pigra o frettolosa che nasconde la spazzatura sotto il tappeto. Credo fermamente che non ci sia altra scelta: o essere protagonisti della storia (umili, piccoli, magari paurosi ma attivi) o essere vittime della storia, scivolando ai margini delle tragedie mondiali ma finendo egualmente in un abisso.

Se accettiamo questa prospettiva, abbiamo molto da fare, a cominciare dal far crescere una insurrezione morale di massa contro la intollerabile situazione coloniale della Palestina; ma questo lavoro rimarrà astratto - e poco coinvolgente per coloro cui chiederemo di condividerlo – se non sapremo renderlo più vivo, più amabile (ecco la parola giusta!), attraverso azioni concrete di solidarietà. La gente non ne può più della politica fatta soltanto col bilancino della prudenza e l’avarizia del buonsenso: la gente vuole, deve avere, una politica che sia anche esigenza del cuore.

Le amiche e gli amici di Gazzella ci offrono oggi una mano per uscire dalla campana di vetro dell’inerzia colpevole. Li ringrazio con tutto il cuore e spero che saremo in molti a unirci a loro

Ettore Masina.