Roma, maggio 2006 
RESCONTO DEL VIAGGIO NELLA STRISCIA DI GAZA (17-24 aprile 2006)
A tutti gli amici che sostengono un bambino palestinese attraverso il progetto Gazzella
 
 
Cari amici di Gazzella,
 
qui di seguito potete leggere il resoconto del mio ultimo viaggio a nella Striscia di Gaza che ho effettuato lo scorso mese di aprile. Vorrei tanto potervi scrivere cose diverse, raccontarvi che la situazione nei territori occupati è migliorata, che qualcosa – finalmente – sta cambiando. Purtroppo non lo posso fare. La realtà, cruda e lampante, è che a Gaza si continua a morire,  al di là dell’operazione strumentale – una sorta di specchietto per le allodole – del tanto strombazzato ritiro unilaterale israeliano dalla Striscia di Gaza e dello smantellamento di poche colonie.
La verità è che a Gaza (e non solo) l’occupazione continua, o forse sarebbe meglio dire non è mai finita. I cosiddetti ‘omicidi mirati di presunti ‘terroristi’, una specie di esemplare ossimoro inventato dalla propaganda sionista (un omicidio è cattivo, ma se è mirato è buono), per definire uccisioni extragiudiziali al di fuori di qualsiasi legalità, colpiscono sempre più spesso la popolazione civile. Le aggressioni portate avanti dall’esercito con decine di tanks attaccano aree agricole ed abitazioni civili.
Il 10 aprile scorso, a Bayt Lahiya, durante uno di questi attacchi è rimasta uccisa una bambina di soli 8 anni: Hadil. Assieme ad Ilham (la collaboratrice di Gazzella a Gaza) sono andata a trovare la famiglia. La casa dove viveva Hadil è stata completamente distrutta. La numerosa famiglia – 12 fra fratelli e sorelle - già poverissima, è stata ora privata anche dell’abitazione, l’unica cosa che possedesse - e ora sono costretti a chiedere ospitalità ai parenti.  Nell’incursione sono rimasti feriti altri 9 membri del nucleo familiare e tra questi la sorellina di Hadil, una bimba di soli tre anni, Nur, colpita alla gamba. La madre ed il padre sono disperati e ci hanno chiesto soccorso per sostenere le spese mediche che stante l’indigenza non possono permettersi. Abbiamo assicurato loro che faremo del nostro meglio e quanto nelle nostre possibilità per cercare di dar loro aiuto. Già è importante raccontare la loro storia, continuare testardamente a far sapere ciò che accade oggi, ogni giorno, in Palestina.
Questo mio viaggio, le mie visite ai ‘nostri’ bambini, sono ancora e sempre segnate dalla sofferenza. A Gaza mi aspetta un altro dramma. Ancora una storia di morte e patimenti. Sono andata a trovare Abdallah, nato il 29/12/2002, ferito allo stomaco. Sapevo che anche la sua era una famiglia numerosa – 12 fra sorelle e fratelli -  e che era orfano di padre. La madre, annichilita dal dolore, mi dice che il bambino è deceduto tre mesi fa a seguito della gravità della ferita. Vorrei mettermi a urlare e fuggire da questa realtà, tornare alle sicurezze, agli affetti miei, in Italia, a casa. Invece abbraccio questa donna  e cerco le parole adatte, ma come si fa a consolare chi ha perso un figlio di tre anni? Da lei vengo a sapere che anche un fratello di Abdallah, Ibrahim di 15 anni, è stato ferito, sempre allo stomaco, lo scorso anno. Ihrahim non era fra i bambini e ragazzini sostenuti da Gazzella, ma anche se ha già 15 anni, decido di proporre ai nostri amici del Medical Relief di inserirlo nel nostro progetto, al posto del fratellino deceduto, certa che la sua mamma ‘adottiva’ qui in Italia sarebbe stata d’accordo. Poi prendo commiato, accompagnata da una sensazione di impotenza, rabbia e frustrazione per l’impossibilità a fare di più. Continuo le mie visite.
Sempre a Gaza sono andata a trovare Yasmin, ferita alla testa, allo stomaco e alla mano. Il padre è disoccupato, sono 12 fra fratelli e sorelle, la famiglia è estremamente povera e la miseria, nella piccola casa, si tocca con mano. Ci spostiamo, con Ilham, a Rafah, città al confine con l’Egitto che nonostante stia cercando faticosamente di tornare alla vita, porta ancora i segni pesantissimi dell’incursione israeliana del maggio 2004, durante la quale furono uccisi più di 40 civili. Rafah è ancora praticamene semi-distrutta. Qui andiamo a far visita a Sami, e a Nimat . I due ragazzini non sono in casa, Ilham mi assicura che tornerà a visitarli a breve.
Le visite successive sono nel campo profughi di Khan Yunis, nella zona denominata Tuffah, la ‘mela’. Qui la situazione è sempre drammatica e precaria e moltissime famiglie vivono sotto la soglia di povertà, come quelle dei bambini che andiamo ad incontrare. Muhammad H., che ha quasi 14 anni, è rimasto invalido a seguito delle ferite riportate alla schiena, Samir, ferito alla gamba, ancora non riesce a camminare correttamente, Muhammad  T., ferito all’occhio, ha avuto la vita compromessa.
La settimana che ho trascorso nella Striscia di Gaza è stata segnata da scontri interni fra diverse fazioni e da incursioni israeliane. La zona a nord – quella compresa fra il posto di blocco di Eretz, Bayt Hanun, Dughin e i valico commerciale di Karni – che viene aperto e chiuso a  piacimento dell’esercito occupante – è continuamente sotto il tiro dei carri armati. Il blocco di ogni tipo di rifornimenti, compresi i generi alimentari, rende la situazione drammatica. Ai palestinesi non è permesso esportare i loro prodotti agricoli, tutte le merci importate sono controllate dagli israeliani che impongono dazi altissimi, con un conseguente esorbitante rincaro dei prodotti di largo consumo. I permessi di lavoro giornalieri in Israele, concessi prima a circa 11.000 palestinesi, sono stati ora ridotti a soli 4.000, dunque il tasso di disoccupazione ha raggiunto l’80% fra la popolazione. Questa è la vita quotidiana nei Territori occupati, la realtà spesso taciuta.
 
Infine voglio dire a tutti voi che ho lasciato la Striscia di Gaza costretta a subire l’ennesima violazione di diritti: sono stata obbligata – come tutti i palestinesi che quotidianamente escono per lavorare in Israele e poi rientrano alla sera – a sottopormi a un controllo effettuato mediante l’irradiazione di raggi X. Durante il mio precedente viaggio di gennaio, la stanza predisposta per tale verifica era una sola: ora, zelanti, ne hanno allestite quattro. Negli ultimi tre mesi ho subito due volte questo trattamento. Avrei voluto oppormi, rifiutarmi, ma in Israele parlare di diritti non ha senso. I lavoratori palestinesi, oltre alle innumerevoli vessazioni, devono subire ogni giorno queste radiazioni di cui non è dato conoscere l’intensità e le probabili conseguenze negative per la salute. Ritengo sia necessario trovare, magari assieme, una modalità per riuscire a denunciare anche questa umiliazione, e continuare ad assicurare la nostra solidarietà, amicizia, presenza nella Palestina sotto occupazione.
 
 
Giuditta