VIAGGIO A HEBRON

 

 

Mentre Giuditta e Ugo, dopo Gaza vanno a Nablus, un altro membro di “Gazzella” è a Hebron. Ecco il suo resoconto:
 
Finalmente questa volta riesco a raggiungere Hebron; in altre occasioni sono sempre stato respinto, per una “ragione” o per un’altra.
Poter vedere questa città mi attenua un po’ il dispiacere di non essere potuto andare a Gaza con Ugo e Giuditta a visitare il mio bambino, ormai ragazzo, in affido e gli altri bambini di “Gazzella”.
Gaza, anche dopo il ritiro dei coloni, è sotto rigido controllo israeliano; i suoi confini sono blindati, il mare è impraticabile per i pescatori palestinesi (solo a dicembre ne sono stati uccisi tre), i bombardamenti da aerei e artiglieria sono quasi quotidiani, la fascia di “sicurezza” creata a Nord è interdetta ai palestinesi (il giorno dopo le elezioni è stata uccisa una bambina di nove anni colpevole di avere in mano una busta di plastica sospetta).
Insomma, una grande prigione a cielo aperto con la sola differenza che i carcerieri non sono più anche dentro ma sono tutti attorno, per mare, terra, cielo.
A Hebron, invece, i coloni sono nel cuore della città.
Questo rende la situazione unica: qui l’occupazione è amplificata all’ennesima potenza.
Il colono non è l’indesiderato vicino che ha costruito sulla tua terra la propria casa a ridosso della tua; è uno che ha occupato la tua casa, si è incuneato nell’intimità della tua abitazione, impedisce al tuo bambino di uscire di casa per andare a scuola o a giocare in strada, a tua moglie di andare a fare la spesa, a te di andare a lavorare.
Da un’altura riesco a osservare il panorama della città: la colonia di Kiryat Arba (circa 6000 coloni) scivola dalla collina e si insinua nella città, come una velenosa metastasi; giunge alla moschea, quella dove il dr. Goldstein ha trucidato 25 inermi palestinesi in preghiera, e va a collegarsi ai 500 coloni che occupano il centro della vecchia città.
Nel vecchio suk vedo quello che già sapevo ma vederlo crea un’angoscia che ti prende le budella e provoca una rabbia che ti fa parlare da solo.
E non dici belle cose.
I palestinesi sono stati costretti a mettere teli e reti sulle strade per impedire che gli escrementi e l’immondizia gettata dai coloni che occupano le case soprastanti invadano le loro case e i loro negozi.
Così cammino sotto la pattumiera.
A Hebron i commercianti palestinesi sono gentilissimi, non ossessivi e importuni come spesso a Gerusalemme, sempre più “commercializzata” ed occidentalizzata: ti salutano, ti chiedono perché sei lì, ti offrono un tè.
Se compri, bene; altrimenti sei il benvenuto ugualmente.
Eppure sono ben più poveri dei negozianti di Gerusalemme.
Visito la moschea dimezzata: sì, perché una parte è ormai diventata sinagoga!
Trovo i fori dei proiettili di Goldstein ovunque: ha sparato all’impazzata.
Il custode continua a ripetermi: “non era un pazzo, era un dottore” quasi che un dottore non possa essere anche un pazzo.
Il grave è che effettivamente non era pazzo, almeno non nel senso clinico del termine: era solo l’avanguardia di quella follia collettiva che si chiama occupazione.
Parlo con i Carabinieri italiani che fanno parte della forza internazionale (TIPH) preposta al controllo della zona H2 (quella con i coloni).
Alcuni sono veterani, sono stati in Kosovo e in Iraq, a Nassirya.
Tutta esperienza e “professionalità” sprecata: qui possono solo guardare e scrivere quello che vedono, spedire il rapporto, consapevoli che andrà in un cassetto e da qui in uno scatolone in qualche cantina.
Questa “forza” ben rappresenta l’ipocrisia e l’incapacità della comunità internazionale ad intervenire sulla questione palestinese: il confine tra l’osservatore passivo ed il complice è ben tenue.
Mi torna in mente il dibattito sul livello di consapevolezza in Europa dell’esistenza dei campi di sterminio.
Ben più utili sono i ragazzi che incontriamo nel cuore della zona occupata: sono una decina, vivono in un paio di stanze, dormono per terra e quando entro stanno cucinando la cena con un fornello da campeggio.
Vengono da ogni dove: Canada, Stati Uniti, Italia ....
Fanno tenerezza per la giovane età (20/22 anni in media) ma sono molto determinati.
Il loro lavoro consiste nell’accompagnare i bambini a scuola, le donne a fare la spesa.
Si prendono sassi, sputi, spintoni.
Il rischio di un Goldstein impazzito che entri in queste due stanze e faccia una strage non è poi così remoto.
Gli internazionali hanno già avuto i loro morti (Rachel, Tom) e nessuno è stato ucciso per errore.
Si fa sera; un minareto dista pochi metri dalle case del centro occupate; mi sembra che abbia più altoparlanti del solito: certo è che la preghiera della sera esce fortissima, quasi violenta, come a gridare a questa gente venuta da Brooklin: andatevene, ridateci le nostre case, i nostri orti, i nostri olivi, la nostra pace.
A proposito di case, riesco a mantenere l’impegno preso con un mio amico palestinese di Hebron che vive a Rho.
Con l’aiuto di un suo parente, trovo la sua vecchia casa di famiglia; è in alto sulle colline, domina tutta Hebron.
Per questo motivo è stata occupata dall’esercito.
Ovviamente la versione dei tre ragazzotti in divisa armati sino ai denti che mi impediscono di entrare è ben diversa: quella è una casa dove 120 anni fa viveva la moglie di un famoso rabbino; ora c’è una biblioteca, visitata dagli israeliani.
Eppure da lì la famiglia del mio amico è stata cacciata nel 1948 e tuttora il mio amico ha la chiave di quella casa.
Mi piacerebbe provarla sulla serratura!
Vicino c’è un cimitero: c’è anche la tomba di Goldstein, ove si recano in pellegrinaggio altri pazzi come lui!
Qui tutto è violenza, inganno, mistificazione.
Come la storiella dello sgombero dei coloni.
Avevo letto dell’intenzione di Olmert di espellere i coloni da Hebron.
Pensavo i 500, certo non mi illudevo per Kiryat Arba.
Invece scopro che devono essere sgombrate solo alcune famiglie che hanno occupato un’immobile recentemente.
C’è una sentenza da fare eseguire.
È tutto ridicolo.
Anche qualche chilometro del muro è stato dichiarato illegittimo dalla “giustizia” israeliana.
E le altre centinaia?
E tutta Kiryat Arba?
La strategia è raffinata: si accredita l’immagine di uno Stato democratico che fa rispettare le proprie leggi (quelle internazionali no, non esageriamo!) e a livello mediatico prima o poi vedremo in TV come a Gaza, come ad Amona, scene di “poveri disgraziati” costretti a forza a lasciare la “propria” casa.
Ed ancora una volta i ruoli di vittime e complici saranno invertiti.
Il giorno dopo sono ai seggi elettorali.
La campagna elettorale è stata ordinatissima, vivace, partecipata.
Assisto anche allo spoglio dei voti.
I risultati sono segnati col gesso su vecchie lavagne, come quelle di quando ero alle elementari.
Sono due lavagne di circa 3 metri l’una di lunghezza.
Per segnare i voti di Hamas occorreranno entrambe.
Fatah rimane ferma all’inizio della prima lavagna, seguito da “Terza via” di Hanan Ashrawi e poi le altre liste di sinistra, con ancora meno voti.
La lista di Hamas si chiama “Taghyir wa Islah” che vuol dire “Cambiamento e Riforma”.
Un nome significativo.
Chi in occidente si straccia le vesti per la vittoria del partito islamico, dovrebbe riflettere sugli errori di Fatah e dei partiti di sinistra (come al solito e come ovunque, divisi e spezzettati) ma anche sugli errori dell’Occidente, dell’Europa in particolare, della cosiddetta sinistra e ancora più in particolare di quella italiana.
Penso alle manifestazioni in Italia di “Sinistra per Israele”; penso al senso di isolamento che debbono avere provato i palestinesi nel vedere in TV sventolare nelle nostre piazze la bandiera israeliana.
Taghyir wa Islah: l’ho sentito nelle orecchie più di 200 volte su 250 voti.
E penso: non si è mai visto un gruppo definito terroristico chiedere semplicemente l’applicazione delle risoluzioni ONU: uno Stato palestinese nei confini del 1967, Gerusalemme capitale dei due Stati, il ritorno dei profughi.
Il muro avanza (l’ho visto a Kalandia, ad Abu Dis) e si insinua rubando altra terra, imprigionando, dividendo palestinesi da altri palestinesi, dai campi, dagli ospedali; le colonie avanzano e per un piccolo avamposto sgomberato 1000 case sono costruite; Gerusalemme è sempre meno araba e le bandiere israeliane sono sempre più frequenti anche nel quartiere arabo della Old City.
Eppure tutti a chiedere ai Palestinesi di rinunciare alla lotta di liberazione, legittima in tutte le sue forme anche in base alle Convenzioni di Ginevra; nulla è chiesto, invece, all’occupante.
La collettività internazionale non ha più regole e quelle che ha non le fa rispettare.
Ed allora il muezzin grida forte una preghiera ma anche la propria rabbia.
E il voto va a Taghyir wa Islah. Cambiamento e Riforme.
Qualcosa deve cambiare.
E presto.
G.
Gennaio 2006
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